Guarire l’ego prima di guarire
dall’ego
3ème Millénaire n. 51 – Traduzione della dr.ssa Luciana
Scalabrini
Uno di alcuni denominatori comuni a
tutte le vie spirituali è che non dobbiamo produrre con i nostri sforzi una
realtà che ancora non esiste, ma aprirci a una Realtà ultima, che è già il
fondamento del nostro essere e della nostra coscienza. Quello che chiamiamo
“me” o “io” nel corso della giornata non è che una
realtà condizionata e mutevole. Si tratta perciò di risvegliarsi da una illusione o da una ignoranza, non di produrre, ma di
scoprire ciò che in noi trascende lo spazio, il tempo e la causalità.
Da un certo punto di vista, il risveglio potrebbe essere
improvviso, ma, per la verità, tutti gli insegnamenti tradizionali riconoscono l’importanza di ciò che ricopre o vela quella
Realtà. E tutti ci danno una descrizione estremamente
precisa dei differenti livelli di funzionamento dell’individuo, come i kosha nel Vedanta
o la diverse forme di naf
nel sufismo. La Via non comporta solo un cambiamento
o un miglioramento, ma una trasformazione radicale, una metamorfosi. Non
spuntano le ali sul dorso del bruco.
La condizione ordinaria dell’essere umano è una sorta di
falsa non–dualità per la quale non diamo
diritto all’altro di essere pienamente un altro, cioè differente da noi. E
quando dico l’altro, non si tratta solo degli esseri umani, ma di tutto ciò che
con cui entriamo in relazione duale, quella del
soggetto e l’oggetto, quella del me e del non me.
Dietro all’ego, o più precisamente l’egocentrismo, si trova
questa convinzione: “Se il mondo fosse veramente ben fatto, corrisponderebbe
sempre alla mia attesa del momento, alla mia domanda del momento.”
La verità folgorante mostra che non è così. A partire da lì
scatta il doppio meccanismo dell’attrazione e della repulsione, della scelta e
del rifiuto, con il gioco del desiderio, delle paure e delle emozioni
conflittuali. Quell’egocentrismo fondamentale tenta di negare la limitazione e
la separazione e, nello stesso tempo, non smette di affermarle e confermarle.
Rifiutando ciò che non
piace nel momento (paure, angosce), appropriandosi di ciò
che piace, (stati felici o euforici),
non si cessa di voltare le spalle alla direttiva fondamentale: né rifiuto, né
attaccamento.
Credere che possiamo passare in un sol colpo da questa
situazione alla vera non dualità, cioè alla
scomparsa del senso dell’individualità
limitata e separata, è un’illusione, di cui sono testimonianza le sconfitte dei
ricercatori spirituali anche profondamente sinceri.
Come diceva Ramana Maharshi: “La polvere e il carbone sono tutti
e due combustibili; mettete un fiammifero sulla polvere, s’infiamma
subito; mettete un fiammifero sul carbone, il fiammifero si spegne”.
Altra immagine, si accende facilmente un foglio di carta
perfettamente asciutto, mentre non si accende facilmente un foglio impregnato di umidità. Bisogna perciò incominciare col vedere
all’inizio con chiarezza, in ogni dettaglio, in che consiste l’errore,
l’aberrazione del modo abituale di funzionare, di percepire e di concepire la
realtà relativa, quella che si manifesta nel quadro della
molteplicità e dell’impermanenza. La tradizione
mistica, ascetica o contemplativa cristiana ha nettamente distinto le tre
tappe: la via purificatrice, la via contemplativa e la
via unitiva. E si troveranno le
equivalenti nelle diverse tradizioni.
Buddisti come Hindu distinguono la
verità ultima e la verità relativa, quella del mondo
fenomenico. Certo, il relativo è l’espressione dell’assoluto, come le onde
effimere e molteplici sono
l’espressione dell’intero oceano. “Il samsara è il nirvana,
il nirvana è il samsara”. Ma
quel samsara,
quel mondo delle apparenze affascinanti o terrificanti, s’impone dapprima come
la sola realtà. Leggi, che le scienze umane scoprono e formulano, reggono lo psichismo umano: angoscia, desiderio, paura, aggressività,
ambivalenza; nessuno di questi meccanismi toccano più
il Saggio. Ma questa libertà radicale richiede un lungo lavoro, che la
tradizione hindu indica con i termini di purificazione
dello psichismo (chitta shuddhi), d’erosione dei desideri e
delle paure (vasanakshaya)
e di distruzione del mentale, il mentitore per eccellenza(manonasha).
Penso a una frase detta da Nisargadatta Maharaj qualche mese
prima di lasciare fisicamente questo mondo: “D’ora in poi non risponderò più a
nessuna domanda che presupponga la realtà del mondo fenomenico”. Fantastica risposta che ci può rivoltare da cima a fondo. Ma come essere umano,
ancora pieno di un mondo di desideri e di paure, di samskara (impressioni antiche
radicate in noi) e di vasana
(propensioni, tendenze latenti), si possono davvero fare propri dei propositi
così radicali?
L’ego, insoddisfatto e desideroso di libertà, può augurarsi
di acquisire capacità o proprietà che ora gli mancano,
ma c’è molto più da perdere ciò che è di troppo che da acquistare ciò che oggi
sembra mancare. Una domanda mi è stata posta spesso. “I saggi che avete
incontrato, i saggi che avete mostrato nei vostri
diversi film, che cosa hanno più di noi?” La vera domanda è: “Che cosa hanno
meno di noi?” Che cosa non hanno più che noi abbiamo ancora e che ingombra il
campo della coscienza? Certo, è imperativamente necessario non confondere lo
psichico e lo spirituale propriamente detto, non ricondurre lo spirituale allo psichico. Ma è anche necessario tenere conto dello psichismo, delle sue complessità, delle sue contraddizioni,
dei suoi dinamismi inconsci.
All’epoca( trenta o quarant’anni
fa) quando la distinzione tra vie progressive e vie improvvise o di illuminazione istantanea mi preoccupava, come ha potuto
preoccupare molti altri, le risposte che ho avuto, sia dai maestri zen in
Giappone che dai maestri tibetani, hindu o sufi, hanno
sempre confermato la necessità di un rigoroso lavoro di conoscenza di sé negli
aspetti più concreti, quelli stessi che studia la psicologia e che cercano di
curare le diverse scuole di psicoterapia.
Come ha scritto Jaques Vigne, che
unisce a una formazione di psichiatra una profonda esperienza
della saggezza hindu: “La psicoterapia guarisce il
mentale, la via spirituale guarisce dal mentale ”.
Prima di guarire dall’ego, bisogna prima
guarire l’ego, conoscerne i meccanismi, le contraddizioni e la forza d’inerzia
delle abitudini (reazioni emozionali e
mentali). Non si può essere liberi da ciò di cui non si è prima perfettamente
coscienti.
Il lavoro di guarigione dell’ego comprende una parte di decondizionamento. Swami Prajnanpad
usava il termine diseducare. Bisognava, secondo lui, diseducarsi da tutto
quello che i genitori, la società, la cultura, la scuola e la religione imprimono in noi e che
abbiamo represso a nostra volta. “I vostri pensieri sono citazioni, le vostre emozioni sono imitazioni, le vostre azioni sono
caricature”, diceva senza mezzi termini.
Evidentemente, quando ci si avvia sulla via progressiva,
bisogna fare prova di costanza e pazienza. E’ un lavoro a lunghissimo termine,
a volte ingrato, dove bisogna rimettere in discussione le proprie convinzioni
senza scoraggiarsi.
Ho incontrato molti ricercatori delusi perché “questo non
aveva progredito abbastanza velocemente”. Come mi disse nel
1967 Kalou Rimpochè:
“Gli occidentali pensano che possono farsi trasportare in cima alla montagna in
elicottero e che quei poveri tibetani con i loro
preliminari, i loro ritiri di tre anni, i loro anni di pratica, salgono la
montagna a piedi”. E ha precisato: “ Nel Dharma non sarà mai possibile”.
Per confermare ciò che dico qui brevemente, non raccomando
mai troppo l’importante libro del buddista americano Jack Kornfield
intitolato “Pericoli e promesse della via spirituale”. Dalla sua esperienza di
monaco buddista, avendo meditato molte ore tutti i
giorni per molti anni in un monastero in Thailandia,
avendo una formazione universitaria americana in psicologia, riporta
continuamente i piedi per terra a tutti i ricercatori che aspirano al
risveglio, ma si dibattono nelle loro difficoltà interne.